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Rembrandt: "Cena in Emmaus" Spiegazione e Analisi

“CENA IN EMMAUS” di Rembrandt Van Reijn (1629)

Olio su carta incollata su tavola cm 42 x 34,7

Museo Jacquemart-André – Paris

Rembrandt Cena in Emmaus spiegazione e analisi accademia artistica

Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò

e camminava con loro.

Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo.

Ed Egli disse loro: “Che sono questi discorsi che state facendo fra voi

durante il cammino?” Si fermarono, col volto triste. Uno di loro, di nome

Cleopa, disse: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme, da non

sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?”.

“Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se

dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché

si fa sera e già il giorno volge al declino”. Egli entrò per rimanere con

loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo

spezzò e lo diede loro.

Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero.

Ma lui sparì dalla loro vista. (Lc, 24, 13 seg)

(contributo di Emanuela Centis)

GENESI DELL’OPERA

I discepoli di Emmaus (Luca 24, 13-35)

Nei tempi antichi, quando sussistevano altri valori, diverse quotidianità, letture storiche e spirituali, e la vita era assai meno stupida di adesso (perché vivere non era scontato, non era un diritto, ma una conquista che andava guadagnata o perlomeno non perduta giorno dopo giorno. Vivere non sapendo se e come si arriverà a sera Credo sia stata un’impresa sovrumana. Nemmeno noi abbiamo grandi certezze, ma in confronto a loro…), e considerata (allora) un bene corruttibile, disfacente, marcescibile, capace di andare in putrefazione in tempi brevissimi (il che non significa che non avesse i suoi momenti positivi. Semplicemente, la realtà, la verità, brutte come la fame, regnavano sovrane, e l’uomo coltivava tutti gli strumenti che poteva, fuori e dentro di sé, per rendersi ragione di cotanto scempio, tanta caducità, ingiustizia, dolore e malattia, immotivate, improvvise e arrivanti da ogni direzione, senza un perché (allora), mentre al tempo stesso codificava, intellegiva diverse strutture mentali perché il poco di gioia che poteva ricavare dalla loro esistenza lo aiutasse a colmare le voragini che gli si aprivano davanti ogni minuto secondo.

C’è chi guardava al cielo, c’era chi guardava agli Inferi.

Ancora oggi, la questione è viva e non risolta.

La morte stessa non faceva paura più di adesso, ma anzi era compagna di vita, accadimento naturale, che arrivava presto e di solito mai in maniera graziosa. Per capire opere e concetti, menti d’uomo e pensieri reconditi, bisogna tornare a quel tempo, a quella vita, a quel buio del sapere, del conoscere, e ai temporali del vivere, mentre i cannoni del creato, sconosciuto e implacabile, tuonavano dalla mattina alla sera.

Chi non ha mai dormito vestito di un sacco, in inverno, riparato da un maiale sporco e una tavola di legno marcia, difficilmente può capire.

Un periodo dove il passato era il presente, e viceversa, tanto erano corti i temi, confuse le cose, assenti le certezze, e il povero essere vivente stava in balia di onde vitali diecimila volte più alte di lui.

Perfino il Cristo, forse la prima vera figura meno simbolica e più concreta, uomo /non uomo sceso tra gli uomini, sulla croce si pose la domanda che tutti gli esseri si facevano ogni minuto, spaventati da tanto caos “«Elì, Elì, lamà sabactàni?" Eloì, Eloì lamà sabactàni?” In ogni caso, la traduzione ufficiale è ”Dio Mio, Dio Mio, Padre Mio, perché mi hai abbandonato?”

Dovevano essere una paura, una sofferenza inumane, inimmaginabili. Specialmente per un innocente puro quale Egli era.

La “Cena in Emmaus”, da sempre, è forse la risposta meno conosciuta, ma di potenza assoluta, per la sua assoluta caratura e significato simbolico, sacrale e spirituale.

È un vero e proprio insegnamento.

È la Speranza, la Fede vera, quella umana, imperfetta perché non guidata dalla Chiesa ma lasciata agli uomini tramortiti dal loro vivere, ed è ancora, aggancio per l’anima forse più potente che c’è. In molti passi della Cristianità, e del Cattolicesimo, viene richiesta fede assoluta, Credo indiscutibile. Qui è lo stesso, ma Fede e Credo scendono in noi (o meglio, sono in noi ma si rivelano), e per questo assurgono ad una potenza e ad una maestosità inenarrabili

Ed è così che la Cena in Emmaus, di per sé accadimento abbastanza semplice se rapportato a Bibbie, Vangeli, Testamenti, teologismi e quant’altro, riesce a reggere benissimo il confronto con tematiche assai meno paludate, broccate, preziose, e magari riusciamo a sentirla più vicina a noi.

Noi, che abbiamo un rapporto conflittuale con la Fede e il Credo, sentiamo però scendere la Spiritualità indefinita, parole non sempre chiare ma scolpite e rassicuranti, guardando quest’opera e non quelle fatte rifatte da molti altri artisti, forse più bravi di pennello, ma con assai meno Sacralità di quella che possedeva Rembrandt, fortemente carico di questi valori.

LETTURA SPIRITUALE DELL’OPERA

Dunque, cerchiamo si leggere l’opera, e bere dalle mani di questo Cristo, per come Rembrandt ha deciso fosse meglio presentarcelo.

Luca ci presenta un quadro stupendo, con un obiettivo che vale la vita di chi ha Fede, nella sua totalità: ci descrive la vita di chiunque vuole arrivare ad incontrare il Gesù. Questo cammino comprende un’andata, un camminare, che rappresentano lo sconforto, la delusione, la solitudine e il senso di smarrimento e di perdutezza dell’anima, e un ritorno, rappresentato da uno stare seduti a tavola (un lusso da niente, al tempo), e la gioia che ne deriva, e riempie il cuore, per poi ritornare a Gerusalemme con tutt’altro stato d’animo.

Infine, a coronamento di tutto, base della Comunità Cristiana, c’è l’incontro con i fratelli, quasi che tutto il resto fosse una preparazione a questo stare insieme. Difatti i versetti successivi al 35, ci presentano Gesù che sta nella comunità dei discepoli che si erano dispersi chi qua chi là: ora sono tutti attorno a Gesù.

Andiamo al testo.

Il versetto 13 dice: “Due di loro erano in cammino”. La vita di ogni giorno è un cammino, lo abbiamo detto.

Perché “due di loro?” Il numero due rappresenta l’inizio della comunità, del popolo; quindi, di ognuno di noi, che a sua volta è popolo, e per questo può formarne e appartenerne ad uno. Uno di quei due, quello che apparirà nel testo senza nome (e non ha nome, perché il suo nome è quello di ognuno di noi), siamo ognuno di noi e il percorso da fare è per tutti “di sessanta stadi”, numero non casuale che designa l’imperfezione umana che è in cammino verso la perfezione, rappresentata dal numero sette: Dio.

Con poche parole, Luca ci spinge a divenire compagni dei due viandanti, i quali scendono da Gerusalemme come il malcapitato della parabola del buon Samaritano. Vanno verso Emmaus, che è l’equivalente di Gerico.

E lì succede una cosa della quale nessuno di accorge: Gesù si unisce a loro. E se fossero milioni a discendere da Gerusalemme, ognuno di loro, secondo il sacro testo, avrebbe Gesù che silenziosamente, sotto nascoste spoglie, si accompagna e cammina con loro.

Cita Wikipedia: ”Sebbene si possa dire che l'intento principale della presentazione della scena nel vangelo di Luca sia quello di comprovare la risurrezione di Gesù con una apparizione, il racconto sembra non dire nulla in tal senso. R. W. L. Moberly ha suggerito come "la storia sia meglio compresa come un'esposizione ermeneutica del discernimento, in particolare focalizzato sulla domanda Come uno può riconoscere Cristo risorto". Alfred McBride disse che la narrazione di Emmaus riguarda più che altro "l'evoluzione della coscienza dei due discepoli, più che la morte e la risurrezione di Cristo". Come ha notato James L. Resseguie, "gli apostoli avevano in cuor loro un misto di disappunto, pazzia, arrancavano, erano lenti di cuore durante il loro viaggio, ma Dio aprì loro gli occhi in questo mondo"

Perché li accompagna in discesa? È una metafora figurata, in quanto li accompagna in discesa perché li accompagna verso il basso delle difficoltà della vita. Lì dove, per tutti noi, come detto prima, si spegne la dolcezza dell’incontro con Dio; lì dove ritrovi il dubbio e l’incertezza., lo scontro con i tuoi compagni di viaggio.

Infatti, al versetto 15 è scritto: “Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro”. Ma non si accorgono che è lui: un qualcosa di estraneo fa violenza sui loro occhi e li rende ciechi (v. 16). Ed è proprio questa violenza, questa presenza del Male che viene immediatamente sconfitta. Per questo, Gesù è con loro. Il Male porta seco la delusione, la paura, lo spettro lasciato dalla morte atroce di Gesù. Hanno il volto di chi è arrabbiato con la vita (v. 17). Tutta la negatività della vita si dà convegno nel loro cuore. Si sentono morti dentro.

Gesù inizia la sua azione di recupero. In che modo? Li lascia sfogare. È il sistema che usa uno che conosce l’animo umano e il suo carico di tristezza, con chi è “morto dentro”. E “quei” due aprono il loro animo triste a quello sconosciuto che cammina con loro.

Anche il buon Samaritano era uno sconosciuto per chi incappò nei briganti. È sconosciuto perché il bene è sconosciuto, ai più, e non han forma riconoscibile: solo dopo che si è palesato, riusciamo a riconoscerlo.

È interessante notare come in un primo momento sia uno solo dei due, Cleofa, a parlare con Gesù. Poi, al versetto 19, a Cleofa si unisce anche l’altro: cioè, tutta la comunità all’unisono manifesta quello che sa. E cosa sa la comunità? Il Kerygma, l’annuncio di Gesù nelle sue parole e nelle sue opere. Il discorso che fanno è quasi uguale a quello che faranno Pietro e anche Paolo in Atti degli apostoli. Però i due fermano il loro racconto alla morte di Gesù, non vanno oltre.

Quella morte in croce è la fine di tutte le loro speranze: è la morte di tutti i loro sogni. “Noi speravamo” dicono al versetto 21, e aggiungono: “che fosse lui a liberare Israele”, manifestando così l’oggetto della loro speranza: la liberazione d’Israele dall’occupazione romana; il ritorno allo splendore della monarchia davidica. Non potevano, quindi, avere un’altra visione della sofferenza, della croce e della morte: È il comune pensare di tutti i tempi: la morte mette fine ad ogni progetto, ad ogni ambizione anche la più nobile. Essa è un muro; anzi, un fossato troppo largo e profondo per andarvi oltre.

Solo la Risurrezione è la realtà che permette di “sperare contro ogni speranza”. Ma i due non sanno cosa sia, anche se corre voce che egli sia vivo, cioè Gesù sia risorto; perché, dicono: “lui in persona non l’hanno visto”. Sempre Wikipedia cita il versetto: «Dopo ciò, apparve a due di loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna. Anch'essi ritornarono ad annunziarlo agli altri, ma neanche a loro vollero credere.»

Sarà il problema di sempre e per tutti. Finché non si fa l’esperienza del Risorto non è possibile andare oltre la barriera della morte. Occorre una comunione diretta e personale con Gesù Risorto.

Al versetto 25 Gesù si mette a parlare: ora tocca a lui a penetrare con la luce della sua parola nelle tenebre della loro tristezza e del loro inganno. Di che cosa parla Gesù? Di un nuovo modo di guardare alla sofferenza, alla croce e alla morte e lo fa aiutandosi con il libro della bibbia, precisamente, citando il profeta Isaia. Questi, al capitolo 53, dove parla del Messia sofferente, offre una versione della morte come germe di vita per sé e per gli altri. I due trascuravano questo secondo momento della vita del Messia: la sua morte infame, considerata invece quale chicco di grano che, caduto in terra, procede da morte a nuova vita, nuova trasformazione, e produce molto frutto. «Essi, difatti, non avevano fede in lui, anche se stavano parlando di lui. Il Signore, allora, apparve a loro ma non si mostrò con un volto tale da poterlo riconoscere. In questo modo il Signore agì esternamente, lasciando loro capire col cuore quanto i loro occhi non riuscivano a vedere [...] Il Signore era con loro ma nel contempo non gli rivelava la sua identità. Dal momento che stavano parlando di Lui, Egli mostrò loro la Sua presenza, ma dal momento che essi dubitavano, fece in modo di rendersi riconoscibile»

“Stolti e tardi di cuore”, dice Gesù. Senza testa e dal cuore appesantito. Sembra che con questi termini Gesù voglia dare il nome e il cognome a quei due. L’identità umana resterà sempre con questi due appellativi addosso se non interverrà la luce di Gesù a dare ali alle loro piccole attese. Bisogna volare in alto: ma come si fa? Gesù si mette a spiegare loro la bibbia. Il testo dice al versetto 27: “Spiegò loro in tutte le scritture ciò che si riferiva a lui”. Come faremo noi a trovare un collegamento con Gesù nella bibbia ora che non abbiamo più a nostro fianco Gesù stesso?

Con il suo aiuto, bisogna diventare capaci a scorgere in ogni frase, in ogni personaggio e fatto, le orme, il passaggio e la presenza di Gesù. E soprattutto essere capaci di leggere la croce di Gesù non come un incidente di percorso, una disavventura che ha interrotto il cammino di Gesù; bensì, come la porta d’ingresso, il germe di vita nuova per Gesù e per quanti. Credono in lui.

Il misterioso compagno dei due compagni di viaggio apre alle loro menti nuove prospettive; aiuta a leggere la realtà in profondità e con occhi nuovi. Tutto riprende senso a partire dalle sue parole e quando, al versetto 28 i due sono arrivati a destinazione, cioè a Emmaus, Gesù mostra di voler proseguire il suo cammino.

Ma i suoi compagni, colpiti e con il germe della Rivelazione che sta nascendo nelle loro menti, cercano di trattenerlo ancora un po'. Quella compagnia è troppo importante. Ormai la loro vita avrà un significato solo restando in compagnia di Gesù. Ormai egli è indispensabile per affrontare la strada che si aprirà da quel momento in poi; perciò in coro essi dicono: “Resta con noi” (v.29) e aggiungono il motivo per cui egli deve restare con loro: “perché si fa sera e il giorno già volge al declino”.

In realtà, la missione di Gesù non è ancora finita: gli resta da svolgere l’ultimo atto. L’Eucarestia. Quello di stare a mensa e di spezzare il pane con loro. Così “egli entrò per rimanere con loro”. Al posto di rimanere possiamo mettere il verbo dimorare e così avremo l’esplicitazione di quello che è il nome di Dio: l’Emmanuele, Dio che dimora con noi. Per sempre.

Quando si fa sera e il giorno volge al declino, si sentono avanzare le paure della notte, la tenebra ci avvolge e noi ci sentiamo smarriti: in queste condizioni è necessario che Gesù resti con noi, seduto a tavola, anzi “sdraiato” in una grande intimità, come dice il testo greco al versetto 30. Così sistemato, Gesù “prese il pane, disse la benedizione, lo spezzo e lo diede loro”. Con quest’ultima azione si chiude, rafforzandosi, l’incontro. La parola e il pane. E qui accade il miracolo, si svela l’arcano, gli occhi, le menti e i cuori si aprono, e i viaggiatori finalmente comprendono con chi hanno a che fare. Con quel gesto, che solo il Cristo poteva effettuare nella giusta Santità, “si aprono i nostri occhi e riconosciamo che è Gesù con noi, in noi”

Però il versetto 31 continua dicendo: “ma Gesù divenne invisibile ai loro occhi” e non sparì come dice la traduzione CEI. Gesù resta con i due, con la comunità, con la sua chiesa, anche se in maniera invisibile. E se ne vedono i risultati. Emmaus luogo di destinazione del cammino dei due discepoli e tomba delle loro speranze, si colora di fiducia. Il cammino non termina qui come volevano i due: nella loro vita, a causa di Gesù e della sua visita, si aprono orizzonti nuovi.

Al versetto 32 si dicono l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore mentre Gesù conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?”. A questo punto Emmaus diventa solo una tappa e non la meta definitiva del loro viaggio. Così i due ritornano nella stessa notte a Gerusalemme. Un viaggio diverso da quello fatto durante la giornata: un viaggio pieno di entusiasmo, illuminato da Gesù apparso ai loro occhi come colui che spiega la Scritture; come colui che siede a tavola e spezza il pane per loro.

La loro esistenza è cambiata; è stato Gesù a cambiarla. A Gerusalemme, i due tornano dai loro amici, gli Undici Apostoli e trovano lo stesso entusiasmo che è dentro i loro cuori. Perché è detto nel versetto 33: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. È il grido che giunge pure a noi. Anche noi facciamo il cammino dei due discepoli: dall’amarezza della delusione che ci conduce in basso cioè ad Emmaus, luogo di sepoltura di ogni speranza; all’incontro con Gesù in cui Gesù si manifesta nella duplice forma della sacra Scrittura e del pane spezzato; fino al ritorno nella luce di Gerusalemme.

Gli apostoli, le donne, i due di Emmaus, sperimentarono proprio questo particolare: che la loro vita qui ora al presente, si trasformava, credendo nella Risurrezione di Gesù dai morti. Gesù nella sua persona aveva superato le barriere della morte e di ogni schiavitù che ci tiene legati ed era lì con loro, dentro le loro case e soprattutto dentro i loro cuori. Se la Risurrezione era vera per Gesù lo era anche per i suoi discepoli. Non c’era più motivo per sentirsi sconfitti e rassegnati.

Nacque in loro una speranza nuova. Una nuova forza, più forte di tutto e di tutti: la forza stessa di Dio, legata alla persona di Gesù. Egli era la porta attraverso la quale si viveva già nella vittoria su ogni limite e schiavitù. Tutto era vinto: il potere politico, economico, ideologico.

Ma dove incontrare questa forza, Gesù il Vivente? Luca risponde così col racconto dei due discepoli di Emmaus: ci sono tre canali di comunicazione con Gesù. La preghiera, la Parola di Dio e lo spezzare il pane insieme.

Credere nella Risurrezione non è guardare solo al passato o al futuro ma sentire che un Amico cammina con te, percorre la tua stessa strada, parla con te, mangia con te: Gesù il Vivente. La Risurrezione di Gesù ha effetti salutari anche per noi, qui, ora: è come la turbina che genera luce, ora qui, adesso. Non può spegnersi, fermarsi, perché è opera di Dio il Fedele.

Quindi, la radice che sorregge la nostra fede nella Risurrezione è l’essere certi che Qualcuno si è impegnato e si impegna con noi in maniera irrevocabile. E ciò non è una cosa astratta e filosofica e basta, ma nasce dalla Parola amica che Qualcuno, Gesù ci indirizza, pronuncia a nostro favore, ci restituisce la nostra coscienza, conferma la nostra speranza fino al punto di farci diventare capaci di fare l’impossibile, cioè che dalla morte possa nascere la vita.

Credere nella Risurrezione non è credere a qualcosa ma credere a qualcuno che ha il potere di distruggere ogni limite, ogni barriera e che fa sì che la vita sia sempre vittoriosa. È logico che la forza della risurrezione si manifesta soltanto nella misura della fede che si ha in essa. È come l’amicizia: si regge sulla fiducia reciproca. Allora diventa forza inarrestabile.

L’unica prova della risurrezione è la mia, la nostra vita che oggi, qui, adesso risuscita, si rinnova, vince le forze della morte, libera le forze represse e oppresse e agisce in noi più forte della morte (Franco Barbero).

DESCRIZIONE DELL’OPERA

“L’esperienza luministica caravaggesca si trasferisce in Olanda e trova in questa CENA DI EMMAUS nuovi accenti di luce e di colore nell’audacia di una composizione trasversale che colloca Cristo in controluce, trattandolo quasi come una pura silhouette. La penombra nasconde in basso, in primo piano, il secondo discepolo, con un’apparente anomalia iconografica”

Federico Zeri

L’opera contiene diverse peculiarità. Prima di tutto è di piccolo formato, 42 cm x 37,4, ed è seguito ad olio, su carta applicata su tavola. Rembrandt, nella sua formazione religiosa, aveva circa vent’anni.

Nel 1626, a Leida, era giunto da Utrecht Joannes Wtenbogaert, pittore, che in quella città aveva imparato dai più noti divulgatori olandesi il nuovo uso della luce dell’arte di Caravaggio

I giovani Rembrandt e Lievens (che ricordiamolo, aprirono il loro primo studio insieme), presi in quegli anni dalle più svariate sperimentazioni coloristiche e luministiche, sono molto interessati agli studi sui nuovi tipi di resa della luce, e iniziano a dipingere alla maniera di Gerard van Honthorst (in Italia Gherardo della notte), scene immerse in irreali luci notturne. Ma in modalità diverse.

Mentre Lievens si specializza nelle mezze figure in primo piano interpretate mediante la luce, Rembrandt preferisce la figura intera e utilizza anche lo sfondo nella sua ricerca di profondità spaziale.

Nel quadro colpisce, perciò, la particolare scelta luministica: l’artista sfrutta lo spazio pittorico come spazio drammatico, e la luce abbacinante, pur provenendo dalla figura del Cristo, la illumina da dietro, aumenta la sensazione di stupore e di tensione che si crea nell’ambiente circostante.

ENTRIAMO IN DETTAGLIO

Rembrandt, abbiamo detto, non ricerca l’impostazione figurativa, la foto del momento, come se noi, andando al, fotografassimo l’opera.

Lui ricerca l’effetto, lo stupore, l’emozione legata all’evento. E di tutta la storia inerente alla Cena di Emmaus lui va a cercare e ad eseguire il punto più alto di drammaticità, ricercandolo al minuto secondo, e tra poco ne capiremo il perché. E’ una scelta attenta, ponderata, voluta, e realizzata proprio come doveva essere.

In primis, è lo scontro tra luce e oscurità. Tra disperazione e nuova speranza. In definitiva, tra sconforto e morte e Rivelazione di vita.

Quindi il dipinto non può contenere sfumature velate, o passaggi cromatici leggeri, più assimilabili, meno aggressivi. Non vi può essere una lotta leggera, una discussione pacata, un incontro educato, tra la vita che deve sconfiggere la paura della morte (badare bene a questa differenza: la vita NON sconfigge la morte, poiché essa è la dominante regnante della vita, il suo metronomo, e anche la sua genesi. Senza morte, non vi potrebbe essere rinascita)

Perciò Rembrandt usa pochi, semplici espedienti, ma di grandissimo effetto. L’arte barocca ricorre spesso a soluzioni formali di forte tensione.

In questo caso, sono le doppie diagonali e il trattamento in silhouette della figura in primo piano e sullo sfondo a creare un effetto drammatico, e nello stesso tempo a suggerire il senso dell’improvvisa illuminazione divina.

Rembrandt Cena in Emmaus spiegazione e analisi accademia artistica

E difatti l’uso della luce, come avverrà in altri dipinti, è del tutto funzionale alla scena, e del tutto ingannevole nella realtà: non può esistere, al tempo, una luce così forte, posizionata in quel modo, e che avvolge una sola persona.

Questo per il semplice fatto che essendo luce di Rivelazione divina, questa luce No illumina il Cristo, non lo mette in evidenza, MA E’ IL CRISTO STESSO. E’ LA SUA RIVELAZIONE AGLI OCCHI DEI VIANDANTI, IL SUO DISMETTERE L’ANONIMATO, LA RIVELAZIONE DEL MISTERO, CHE HA L’EFFETTO DI UNA BOMBA ATOMICA. E OSCURA TUTTO QUANTO GLI STA INTORNO, DATALA SUA POTENZA.

È una luce del tutto innaturale, abbiamo detto. Il lume, improvviso e violento, (la comprensione, la Rivelazione, appunto) pone Gesù in controluce, di profilo, in una posizione drammaticamente ritratta. È luce simbolica, profondamente divina. Illumina e mette in moto l’azione e ne svela i sentimenti.

Ed è talmente violento il momento della Rivelazione (eco perché dicevamo che la scena è definita, voluta, scelta al millesimo di secondo) che neanche nelle rappresentazioni fotografiche più grosse e dettagliate è possibile intravedere, senza una enorme fatica (spesso mal ripagata) il secondo discepolo, il secondo viaggiatore, inginocchiato davanti al Cristo.

Rembrandt Cena in Emmaus spiegazione e analisi accademia artistica

La luce abbacinante si abbatte sul discepolo più esposto, seduto al tavolo, ritraendone l’espressione impaurita, abbagliata e intimorita dall’improvvisa Rivelazione: ha capito che non è un semplice viandante, quello seduto a fianco a lui.

Alla fine, lo ha riconosciuto dal modo in cui Egli ha spezzato il pane, durante la cena (secondo quanto riferito da Luca nel suo Vangelo), un momento che Rembrandt segue passo passo nella scienza.

La luce evidenzia le umili suppellettili sulla tavola (povertà mostrata, povertà di pensiero, povertà di forza, coraggio e speranza), e il muro scrostato dell’ambiente modesto in cui si svolge l’episodio.

Rembrandt Cena in Emmaus spiegazione e analisi accademia artistica

Rembrandt usa spesso lo sfondo scuro per ricerche l’effetto della profondità della scena. La figura della donna in controluce intenta in cucina a rigovernare ha una funzione di questo tipo (non riuscendo, nella sua naturale attività quotidiana, a stemperare minimamente la drammaticità della scena). La sua funzione è creare profondità nel buio, tridimensionalità, non trovando la sua presenza nessun genere di riscontro nella narrazione evangelica. Semplicemente, suggerisce profondità, tridimensionalità del luogo.

Rembrandt Cena in Emmaus spiegazione e analisi accademia artistica

Un altro elemento, volutamente fatto passare sottotono, è la sacca del viandante appesa al muro. Infatti, è funzionale alla narrazione: costituisce un attributo alla figura del Cristo, che nell’episodio evangelico ha assunto le sembianze di un viandante.

Rembrandt Cena in Emmaus spiegazione e analisi accademia artistica

Come tale si è accompagnato ai due apostoli lungo la strada e facendosi sera è stato invitato a sostare con loro per riprendere il cammino l’indomani

IN GENERALE

Rembrandt in effetti, nei suoi dipinti, tranne quelli giovanili, non definisce moltissimo, e si affida alle ombre e alla luce per creare un pathos, una patina storica, una verità sofferente e quotidiana che pochi altri, nella Storia dell’Arte, sono stati capaci di interpretare. Per questo, da molti esperti, viene considerato il più grande artista /pittore della Storia. Poi, naturalmente, ognuno avrà la sua opinione.

Il dettaglio, la capacità, l’esattezza, la verità con cui riferisce di intonaci, case povere, muri scrostati e datati (basta guardare in basso a destra il muro dietro al cristo, ma anche quella porzione in piena luce, completamente vuota ma reale come non mai), i tessuti grezzi, appunto poveri, la mancanza di qualsivoglia forma della pur piccola ricchezza…nulla, nulla deve essere superfluo, deve distrarre lo spettatore dalla scena dipinta e attentamente selezionata, e nulla deve far presagire una ricchezza, un benestare, un agio, un semplice benessere se questo non è presente il realtà. E anche quando lo fa, non vi è bisogno di definire “cosa” arricchisce (tranne, naturalmente, in ritratti di alto livello). Basta il bagliore, il colpo di luce, la biacca colata per far intendere il valore di un soggetto, fedele anche ad una mentalità dell’epoca ce non guardava all’ostentazione del proprio stato di ricchezza, ma che si limitava a piccoli quasi insignificanti segnali, che però fungessero da messaggeri per chi li doveva ricevere e comprendere.

Andrea Colore Soldatini

Bibliografia

Si ringrazia per il contributo dato il volume “Cena in Emmaus”, Rizzoli, Collana “cento Dipinti”, a cura di Federico Zeri

Il sito “Le Missioni.net”, nella persona di Franco Barbero per gli spunti resi

Wikipedia

L’autore non ha voluto tenere una lezione teologica, bensì sviscerare, sommariamente (il tema è vastissimo) l’opera pittorica, in questo caso di Rembrandt. Considerazioni personali, scelte religiose e quant’altro non riguardano in nessun modo questo scritto. Se qualcuno ritiene di avere importanti appunti da fare, siamo disponibilissimi a riceverne, prenderne atto e se ritenuti validi, a pubblicarli, previo permesso dell’autore

 

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